Condividiamo alcune riflessioni intorno ai contesti socio-educativi per intravedere alcune soluzioni di sistema.

Negli ultimi anni stiamo assistendo a fenomeni di assoluto rilievo sia nelle professioni sociali sia nel contesto scolastico, che per le ricadute, sui modi di accompagnare le difficoltà che le famiglie incontrano.

La voce dei servizi 0-6, asili nido e scuole dell’infanzia su tutte, segnalano come gli altri ordini e gradi di scuola, una forte difficoltà nel reperimento degli educatori. Si rileva un certo esodo verso il mondo dell’istruzione, il quale a sua volta da diverso tempo sostiene una fatica oggettiva nel reperire docenti. Oltre al reperimento si avverte nella selezione una carenza di professionisti adeguatamente preparati per lo svolgimento del servizio richiesto o “umanamente non disponibili” ad affrontare la complessità emotivo-relazionale del proprio ruolo professionale.

Le famiglie dunque vivono esperienze altalenanti nei servizi che formano insieme ai genitori la prima “traccia relazionale” della vita dei futuri adulti.

PUNTI DI VISTA E VISIONI BINOCULARI

I contratti. Da un lato possiamo comprendere meglio questi fenomeni se allarghiamo lo sguardo alle questioni contrattuali. Le nuove generazioni sempre meno sono “contente” di lavorare con le attuali condizioni economiche e all’interno di “articolate richieste sull’orari lavorativo” verso un progressivo misconoscimento di una buona buona e santa separazione tra vita privata e vita lavorativa. Se da un lato questo porta ad una meritevole riflessione sul progressivo decadimento delle condizioni generali che Enti del Terzo Settore propongono, dall’altro si evince una netta diminuzione del senso motivazionale negli attuali professionisti. Se negli anni ’80-’90 il sociale era anche una scelta dovuta ad una ricerca di se stessi e di connessione con nuovi ideali, oggi seppur determinati valori restano inviolabili, non si accetta di essere malpagati per continuare a credere nei propri ideali. Di conseguenza gli Enti del Terzo Settore o del mondo dell’Istruzione non possono appellarsi al “gusto di un valore sentito come buona causa” per sostenere e motivare una bassa retribuzione ed una mala organizzazione verso quei professionisti che si intende ingaggiare senza poi incappare nella generazione di un circuito disfunzionale e demotivante. Credere in un valore o in una buona causa non può essere “la chiave” su cui per far passare una bassa opportunità lavorativa.

Gli appalti. Credo si convenga facilmente che procedere al ribasso non alza la qualità dei servizi. Apprezziamo quegli Enti del Settore che stanno ben alla larga o si rifiutano di partecipare quando vedono appalti dove è resa impossibile la qualità. Cosa rende un servizio di qualità? Oltre ai criteri minimi presenti in tutti gli appalti, cioè il titolo di studio, occorre aggiungere i criteri con cui si selezionano i professionisti (conoscenza, competenza tecnica, disponibilità emotiva ed umana, introspezione), i modi con cui si sostengono le pratiche riflessive, i modi di svolgere supervisione e formazione continua. Altrimenti qualunque servizio che si riduca alla mera attività operativa, perderà qualità perché la complessità relazionale logorerà il povero professionista lasciato nell’isolamento della sua stessa azione. Occorre dunque che gli appaltatori non cerchino solo la riduzione dei costi interni, ma riflettano seriamente su come le stesse gare possono co-costruire processi scadenti che poi condizioneranno contratti scadenti e professionisti demotivati. In pratica questi primi due punti sono connessi in modo ricorsivo e lo sono non solo perché esistono gli appalti ma ogni qualvolta si cerchi di ridurre costi di gestione senza vedere la rinuncia implicita allo sviluppo e alla qualità dei servizi, accettando di innescare logiche che potranno sfociare nel demerito e nel born-out.

Capitolo Formazione. La formazione di base, cioè la preparazione Universitaria ha progressivamente ridotto le ore di pratica professionalizzante (tirocini formativi e laboratori esperienziali) e sempre più alzato la richiesta di contenuto (numero di libri e di nozionismo nel processo di apprendimento). Ponendoci in ascolto degli ETS e delle PA, Vivaio Famiglia, mentre accompagna e supervisiona tali Enti riceve una lamentela comune: “questa generazione di professionisti non è preparata a vivere le difficoltà del campo in cui dovrà operare, alle prime difficoltà va in crisi e spesso medita se cambiare contesto o addirittura professione”.

Alcune questioni emerse con il Covid e non ancora adeguatamente assorbite nel post-Covid:

  1. professionisti che svolgono formazioni per obbligo o per passione, entrano a far parte di un’ottica sempre più formativo-consumistica, passano di contenuto in contenuto senza davvero acquisire competenze e pratiche professionali.
  2. la formazione che aveva avuto una grossa impennata nel contesto digitale per far fronte alle evidenti difficoltà di acquisire conoscenze in presenza oggi vive di alcune “violazioni” che mal si riflettono sull’esito della formazione stessa:
    • le persone si iscrivono ad un corso on line ma non partecipano attivamente. I professionisti o i genitori comprano corsi, o partecipano ad esperienze di apprendimento gratuite senza realmente formarsi. Come avviene?
    • NON ESSERCI REALMENTE durante la diretta, “tanto esiste la registrazione !”. Ma queste persone poi vanno veramente a rivedere la registrazione? Nella nostra esperienza, meno del 20% e con una durata di permanenza al video nettamente inferiore alla totalità del materiale registrato.
    • ESSERE COLLEGATI a video SPENTO, e quindi nella realtà fare altro o svolgere altre attività in contemporanea…
    • PARTECIPARE ma SENZA TUTELARE IL PROPRIO CONTESTO DI APPRENDIMENTO. Persone che partecipano mentre sono in viaggio, senza poter prendere appunti, senza essere veramente immersi nel momento formativo, mentre gestiscono uno spostamento di uno dei loro figli, visite mediche o qualunque altra situazione della gestione tra vita e lavoro.

CENNI DI SOLUZIONI DI SISTEMA

  1. La formazione Universitaria devi seriamente porsi la questione dei laboratori di pratica e dello sviluppo personale come spazi dedicati all’autoconoscenza e all’introspezione personale. Sappiamo da decenni che il “buon professionista” o almeno “sufficientemente buono” è colui che possiede: competenze tecniche, che vive spazi di riflessione tra teoria e pratica, che ha spazi di supervisione per cogliere ciò che si muove in li mentre opera nella relazione. Senza queste tre parti sforniamo “professionisti saputi” che mancano di riflessività e conoscenza di sè (ed io personalmente non assumerei e non manderei in giro a far danno su altre persone o su se stessi).
  2. Che si utilizzi una formazione on line ed una formazione in presenza, magari alternandole a pratiche riflessive e di supervisione, oggi assolutamente necessaria per qualunque tipologia di servizio socio-educativo, compresa la scuola.
  3. Se la formazione sarà on line darsi delle regole per evitare che l’attività formativa sia solo sulla carta:
    • Video acceso, vietato spegnere la telecamera
    • le registrazioni si rilasciano solo a chi partecipa alla diretta. Le assenze alla diretta, sono consentite solo nella misura del 20%, altrimenti non si rilascia nessun titolo (come si fa da una vita in presenza). Che si prevedano compiti ed esercizi, individuali e di gruppo, prove di messa in pratica e/o attività di ricerca-azione
  4. la formazione continua dei team educativi, di una scuola o di un servizio deve avere una visione strategica d’insieme nel tempo e una coerenza nell’epistemologia che si vuole acquisire. Non ha senso che un corpo docente o un team educativo faccia ogni anno corsi diversi, che ogni educatore scelga un suo corso… queste scelte formativo disgregano una pratica comune, una chiara idea pedagogica e alimentano una visione di egocentrismo-educativo non di comunità educante e pensiero pedagogico unitario. Bisogna che ogni realtà scelga una formazione che abbia un’anima nel tempo, serve tempo affinché una squadra possa saper mettere in pratica una precisa modalità di fare educazione, di fare scuola e serve che la formazione di alterni ad azioni di pratiche agite dal team, altrimenti fagocitiamo contenuti che non diventano mai carne del servizio in cui abito. Senza questi presupposti la formazione da strumento di crescita personale e collettiva diventa strumento di decrescita, svuota, non nutre, non diventa prassi, insomma si autoannulla.
  5. La supervisione non è terapia, non può e non deve coincidere con l’individuazione e/o la rielaborazione dei nodi individuali manca spesso una supervisione di processo e di senso, una supervisione che connetta i movimenti interni del singolo professionista al team, all’intera organizzazione e all’idea pedagogica del servizio o ente nel quale lavoro. Manca il più delle volte una supervisione che supporti la qualità dell’azione educativa e la riflessione sulle fatiche che viviamo nelle nostre professioni.
  6. Occorre accompagnare la crescita del professionista e della persona con attività diversificate, individuali, in piccolo gruppo ed in grande gruppo. Percorsi che siano centrati non sui contenuti ma sui processi, sulle conoscenze delle tecniche e dei loro limiti di applicativi, sulle strategie dentro cui inserire obiettivi di cambiamento e azioni focalizzate, ed infine ma non certo per ultimo sulla preziosa conoscenza di sè.
  7. Sulla questione “ridurre i costi” (e logiche di appalto annesse ma non solo), ricordiamo a tutti, Pubblica amministrazione, ETS, singoli professionisti che quando ragioniamo solo con questa lente è scontato che il servizio perda qualcosa, allora per non cadere nella banalizzazione dell’attività imprenditoriale dobbiamo inserire almeno altre due lenti: come far crescere il servizio, il team, il progetto, la comunità di cui ci occupiamo? Come alimentare processi che generino VALORE? Sempre in ottica multifattoriale: economico, educativo-culturale, terapeutico, sociale, comunitario.

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